Cosa è davvero essenziale, nelle nostre vite?
Tra i tanti insegnamenti che la pandemia ci sta offrendo, ce ne sono due che vorrei sottolineare in questo breve testo:
- il fatto che ci siamo accorti di essere davvero connessi gli uni agli altri (a tal punto che ci viene ricordato di distanziarci);
- Il fatto che viviamo in un mondo estremamente complesso, incerto, ambiguo, volatile.
Complessità e interconnessione sono due aspetti che popolano le nostre vite. E le condizionano in ogni momento, mettendoci nella condizione di avere un mucchio di domande a cui non sappiamo dare una risposta.
Nessuna novità, in realtà: forse è sempre stato così. Il Covid ce ne sta solo dando conferma, con grande evidenza e intensità.
Il cambiamento climatico è un’altra enorme situazione che ci travolge, esattamente come questa pandemia, mettendoci di fronte alla profonda e complessa interconnessione tra le cose del mondo.
Fatichiamo ad ammetterlo, ma ad essere onesti non sappiamo che pesci pigliare, in situazioni così. Siamo disorientati, confusi, sembra che la spia che segnala il nostro livello di stress sia sempre accesa, ad indicarci che siamo al limite. E possiamo rapidamente essere preda del panico.
Perché abbiamo paura di realizzare che non abbiamo nessun controllo su ciò che sta accadendo, e preferiamo voltarci dall’altra parte pur di negare a noi stessi questa evidenza.
Ogni contesto è un un sistema complesso che interagisce in ogni momento con altri sistemi complessi, e nel contempo si trasforma, evolve, cambia. Non è già più quello di prima. C’è altro. C’è ancora altro. E qualcosa non c’è più. Complessità e interconnessione.
E noi, che tendiamo sempre a considerarci gli “osservatori” del sistema, ne siamo sempre parte: l’osservatore è sempre parte del sistema che osserva, lo influenza e ne è influenzato. Nel momento in cui, cercandone il significato, lo descrive, in quello stesso momento lo modifica. E, nel descriverlo, nel pensarlo, nell’osservarlo, ne subisce l’influsso.
Facciamo un esempio concreto e quotidiano, per intenderci: pensiamo a due persone che stanno conversando e una terza che osserva e ascolta. I primi due ne percepiscono la presenza; la terza persona, nell’osservare e nell’ascoltare, nel suo semplice essere lì, è già cambiata, perché ha ricevuto un sacco di informazioni e non le ha semplicemente registrate: quelle informazioni sono diventate parte della sua esperienza, della sua vita e, in qualche modo, della sua identità. Possiamo provare a sperimentarlo, ogni occasione è buona per farlo. Mentre osserviamo qualcosa (un paesaggio, un libro, il nostro team, il nostro capo, il nostro cane), proviamo a notare che cosa cambia dentro e fuori di noi.
E ora un invito: proviamo a sostare un momento sulla possibilità che “dentro” e “fuori” possano essere termini fuorvianti, che non ci siano davvero un dentro e un fuori distinti. Siamo comunque dentro. Siamo interconnessi e siamo interdipendenti. Ogni aspetto che osserviamo “là fuori” lo è.
Quello che in un determinato momento siamo in grado di percepire con i sensi (vedere, ascoltare, toccare, sentire) è ciò che chiamiamo contesto. E il contesto è anche generato dal tipo di conversazioni a cui partecipiamo, dai libri che leggiamo, i paesaggi nei quali ci immergiamo (fisici o metaforici), dai cibi con cui scegliamo di nutrire il nostro corpo e la nostra anima.
Naturalmente siamo in grado di vivere più contesti, nello stesso giorno e nella stessa vita; a volte crediamo perfino di viverli nello stesso momento, quando ci compiacciamo delle nostre (illusorie) abilità di multitasking. Quando le raccontiamo e ci raccontiamo.
E ce la raccontiamo.
La mattina ci alziamo e il contesto è quello della nostra casa, della famiglia. Poi ci mettiamo in auto e il contesto è quello del traffico nel quale siamo immersi, ascoltiamo la radio e i nostri pensieri viaggiano nel contesto del notiziario, arriviamo in ufficio e il contesto è quello dei colleghi, delle attività della giornata. Entriamo in un meeting e il contesto è quello determinato dall’agenda, dagli obiettivi, dal tono delle voci, dalla luce, dalla temperatura.
All’ora di pranzo, il contesto è quello del bar in cui ci infiliamo per trangugiare un panino e una bibita, poi un caffè. Incontriamo per caso un amico che non vedevamo da tempo e il contesto si popola di ricordi, di emozioni. Puoi continuare a viaggiare nella tua giornata, di contesto in contesto, fino a sera, quando puoi scegliere se immergerti nel contesto generato dalla visione di Master Chef o in quello generato dalla lettura di un romanzo. Puoi scegliere. Appunto. Che cosa ci serve per diventare capaci di scegliere?
Le nostre relazioni e i nostri comportamenti sono condizionati in maniera determinante da quei contesti: come ci muoviamo, come ci sentiamo, le sensazioni del corpo, le parole che diciamo, i gesti che compiamo, i pensieri che emergono, ciò che tendiamo a credere, ciò che riteniamo importante e ciò che chiamiamo “valori”, tutto è condizionato dal contesto in cui ci troviamo. Alla fine, sviluppiamo la nostra visione del mondo e la nostra identità in funzione di questo.
Ciò ha conseguenze enormi che spesso, pur essendo sotto i nostri occhi, tendiamo a ignorare.
Le nostre giornate, le nostre vite, sono viaggi attraverso diversi contesti. Quanto più li diamo per scontati, tanto meno avremo la possibilità di riconoscerli per quello che sono e, quindi, di chiederci quale ruolo possiamo avere in quel contesto, in che modo le nostre interazioni possono farlo evolvere, in che modo noi evolviamo (o involviamo…) dentro quel contesto.
Quanto grande, quanto potente è per noi quel contesto? Quanta energia ci chiede? Quanta energia ci dà? Chi diventiamo dentro quel contesto? Su quali altri contesti della nostra giornata, della nostra vita ha impatto? Chi abbiamo conosciuto grazie al fatto di aver attraversato quei contesti? Chi sono i nostri amici? Come ha influito sulla scelta del nostro partner (nella vita, nel business, nello sport, …)? Come condiziona i nostri criteri di scelta (dei vestiti, dei luoghi di vacanza, di come spendere i soldi, ma anche su quale partito votare, come scegliere i collaboratori, ecc.)?
Ti suggerisco di farti queste domande in un contesto specifico: prova ad esempio ad andare un sabato pomeriggio in un centro commerciale, e passarci un’ora. Prova ad andare in una biblioteca. In una chiesa. In uno stadio. Prova ad entrare nella reception della tua azienda come se lo facessi per la prima volta: guardati intorno, i colori, le forme, gli oggetti, gli spazi vuoti e quelli pieni, la luce, gli odori, il movimento delle persone, le posture, i toni delle voci, le espressioni facciali.
Sosta per un momento e “senti” come ti senti, osserva quali sono i tuoi pensieri, i tuoi desideri. Osserva dove si posa la tua attenzione. Senti chi, nel frattempo, stai diventando. Ecco: quello è il potere del contesto.
La pandemia, il riscaldamento globale (per nominare due ambiti che stanno condizionando e condizioneranno in maniera rilevante le nostre vite) sono forse il frutto della nostra navigazione collettiva e inconsapevole dentro a contesti che ci hanno portato fino a qui.
Continuando a navigare dentro agli stessi contesti, negli stessi modi, con gli stessi pensieri, gli stessi comportamenti, non faremo altro che dare ulteriore energia a quei contesti, amplificandone gli impatti, rendendoli de-generativi. Facendo così, non è che non cambierà nulla: cambierà solo in peggio. I nostri comportamenti, le nostre relazioni non muteranno di molto se non avremo il coraggio di trasformare i contesti nei quali avvengono.
E’ un paradosso, ma, come qualcuno dice, “non abbiamo tempo di avere fretta”. E quindi possiamo fermarci, sostare. Vedere che il nostro contesto è limitato, non è sufficiente.
Per vedere qualcosa in più abbiamo bisogno di aprirci ad altri contesti, connetterci con altre vite, lasciarci contaminare e arricchire da altre prospettive, ampliare, espandere i nostri contesti, andare oltre la nostra consueta capacità di vedere e quindi di descrivere, di raccontare.
Ciò che consente di mettere in connessione contesti differenti non sono solo informazioni numeriche, misurabili, oggettive. Sono anche dati di altra natura: i sensi, le emozioni, le intuizioni, le connessioni di mezze idee, le immagini, le evocazioni, le risonanze o dissonanze, i segnali percettibili o sottili che i nostri sistemi umani di “acquisizione dati” (individuali e collettivi) sono in grado di raccogliere e registrare.
Sono quelli che Nora Bateson ha definito Warm Data (per dare completezza a “Big Data”).
Il paradosso della complessità e della interconnessione è che per conoscere non serve capire.
Semplificare la complessità per capirla, significa ridurla a qualcosa di comprensibile (com-prendere, cioè afferrare, incatenare, tenere in pugno): è una tentazione sensata, ma non credo ci aiuti a venir fuori dal pantano. Per navigare nella complessità e nell’interconnessione, se vogliamo essere in grado di vederci meglio, può essere utile farci domande, anziché darci risposte, aggiungere nuovi contesti anziché semplificare i contesti in cui ci troviamo, arricchire la visione di connessioni: in una conversazione su un tema, possiamo ad esempio ampliare il contesto facendo collegamenti ad altri contesti e osservare che cosa emerge di nuovo, come si arricchisce ed evolve la conversazione, come evolviamo noi e come evolve la relazione con i nostri interlocutori. Quali Warm Data emergono e possiamo raccogliere.
Smontare le storie che ci siamo raccontati finora (credendo che fossero le uniche possibili e dando loro il nome di “realtà”, persino di “verità”) e provare a raccontare storie nuove. Completamente nuove.
Raccontare storie individuali e storie collettive. Ascoltare. Ascoltare di più.
Per cogliere Warm Data abbiamo bisogno di potenziare le nostre capacità di ascolto. Scoprire quale valore nuovo possono avere le parole che usiamo e che ascoltiamo, se le scegliamo con cura, le lasciamo andare i profondità, le lasciamo viaggiare come onde intenzionali, dentro e fuori di noi.
Creando nuovi contesti, significati e storie, anziché accontentarci di quelli che ci illudiamo di conoscere.
Con una domanda e un paradosso, che mi pare utile sottolineare.
La domanda: che cosa c’è di davvero essenziale qui per poter iniziare a scegliere di liberarci di ciò che essenziale non è?
Il paradosso: intuire l’essenziale mentre scopriamo che, sempre, anche altro lo arricchisce.